Una riflessione tra il titolo Terzo Reich e il contenuto dell’installazione/spettacolo.
Il Terzo Reich è qui assimilato alla lingua, che funziona come una macchina totalitaria. La video-installazione si basa sulla rappresentazione della totalità dei sostantivi del vocabolario, proiettati, uno a uno, su un megaschermo sulla parete di fondo di un grande ambiente oscuro. Si è obbligati a leggere ciò che si vede. Si è costretti ad assimilare ciò che si vede. Il Terzo Reich è l’immagine allegorica di una comunicazione inculcata e obbligatoria, la cui violenza è pari alla pretesa di uguaglianza.
Che cosa rappresenta il susseguirsi frenetico delle parole?
La velocità di sequenza della loro proiezione è percussiva e detta legge, nel suo perentorio occupare sempre più ogni spazio di riflessione e di distanza critica tra una parola e l’altra. Il frenetico susseguirsi delle parole fa sì che alcune di esse rimangano impresse nella corteccia visiva di ciascun spettatore; altre – la maggioranza – andranno perse. Lo spettatore, esposto a questo trattamento, subisce la parola umana sotto l’aspetto della quantità. È la dittatura della comunicazione. Non conta il cosa, ma il quanto. L’affastellarsi convulso delle nominazioni non lascia nessuno spazio alla scelta, al discernimento.
Lo spettatore ne esce confuso… quel è la raccomandazione che lei gli fa?
Considerare la necessità dell’interruzione critica che sospende il flusso automatico delle azioni quotidiane e degli aspetti più ovvi come lo è, ad esempio, la lingua parlata. La pausa diventa il campo di assedio per la quantità delle parole, per la loro indiscriminata infiltrazione che vorrebbe occupare tutto, anche il più piccolo silenzio. Per ciò, in questa installazione/spettacolo la musica gioca un ruolo di primissimo piano. Si tratta di un suono composto dal musicista americano Scott Gibbons, il quale ha creato, ogni pochi millisecondi, un frame di un suono diverso. Una porta che si apre, un fiume, un cane, un martello, una finestra che si chiude, un vento, un motore acceso… tutto è troppo veloce per capire. Ma niente discorsi, niente canti, niente voci umane. Niente parole, niente “musica”, solo oggetti, direttamente.
In Bros prevale l’azione rispetto al pensiero: qual è l’azione?
Se si riferisce all’azione ne Il III Reich, prima della proiezione percussiva di 12.000 Parole tratte dal Vocabolario della Lingua Italiana, avviene una breve azione simbolica in cui una figura dà vita a un cerimoniale di “accensione” del linguaggio. Vi sono figure chiaramente riconducibili ai concetti di luce e di sostegno, alle prese con la tempesta imminente di parole emanate. Il suono – forse il vero protagonista dell’installazione – si attiva in puntiforme sincronia su ogni parola tanto da dare l’impressione che siano i suoni a creare le parole del vocabolario, in una notte dei tempi…
Più in generale le chiedo una riflessione sulla macchina teatrale che lei adopera con un’originalità senza pari…: in che misura sta la bellezza di quello che si vede e il contenuto che vuole trasmettere?
La macchina teatrale è un attrezzo congegnato per far sì che ogni veduta corrisponda a una visione. Il teatro, fin dalle origini, è legato al vedere. Ciò che si vede è esattamente una macchina che funziona per produrre sensazioni ed emozioni. Il concetto di bellezza è generoso, perché comprende anche lo spiacevole e il doloroso e non soltanto il bello e il grazioso. La macchina teatrale comprende molto bene tutte le forze. E questo è misterioso. E’ misterioso come si possa dire ‘bello’ anche di una cosa oggettivamente brutta. Probabilmente diciamo bello per dire ‘vero’, o, meno impegnativamente: ‘è proprio questo’, ‘è precisamente così’, ciò che tocca e interroga ognuno intimamente.
Dove sta andando la sua creatività? O meglio da che cosa (argomenti, temi, visioni) si sente attratto in questo momento?
Lo spettacolo è una rappresentazione di idee che si vedono. Anche in presenza del testo, il teatro non è logo-centrico. Certo, non è neppure semplicemente visivo. Il teatro è uno spettacolo di idee. Le idee si mostrano e si fanno vedere. Ci sono vedute profonde, lontane, atmosferiche, che non diventano mai discorsi diretti su determinati argomenti. Non nego che vi sia un teatro che voglia commentare la realtà, e che riesca ad avere un certo valore, ma non è questo il mio caso. Tutti i pensieri cominciano quando lo spettacolo termina. A noi tocca portare a termine lo spettacolo. Questa è la cosa più difficile, perché portarlo a termine significa consegnarlo.
[Intervista di Giulia Bassi – Gazzetta di Reggio Emilia]